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Davvero in ufficio non ci vogliamo tornare più?

Ufficio si, ufficio no, ufficio tre giorni si e due no. Qual è la giusta misura?
Ho l’impressione che ci stiamo focalizzando sulla domanda sbagliata. Davvero è una questione di quanti giorni a settimana?

Nelle ultime settimane si parla molto di Great Resignation, fenomeno esploso negli Stati Uniti ma che si sta facendo notare anche da noi: nel secondo trimestre del 2021 le dimissioni volontarie in Italia sono state 485mila, il 10% in più rispetto al 2019. Si, proprio in Italia, il paese dove gli stipendi negli ultimi vent’anni sono diminuiti anziché aumentare e dove la disoccupazione non fa pensare a un mercato del lavoro in salute.

Ho letto molte cose in questi giorni, perché il tema mi interessa da molti punti di vista: quello della cultura del lavoro, dell’organizzazione delle imprese, della comunicazione interna ed esterna, e dell’organizzazione degli spazi del lavoro.

La prima considerazione la rubo a Marco Bentivogli, attivista e sindacalista italiano coordinatore e co-fondatore di BASE ITALIA, dal suo editoriale per la Repubblica del 12 novembre:

“l’aspetto economico è rilevante ma ad esso si uniscono elementi di realizzazione, condivisione di senso, progetto, qualità delle relazioni sociali.”

Una ricerca di senso che si espande a tutti i campi della nostra vita e il tempo in generale. Il tempo ad esempio che usiamo per spostarci verso il luogo di lavoro, o quello che perdiamo attendendo risposte e approvazioni da livelli gerarchici fossilizzati in cui nessuno vuole prendersi più responsabilità del dovuto.

Condivisione di senso e progettualità. Sono due concetti bellissimi che implicano trasparenza e relazione con i propri collaboratori, autentica e umana. Valori che portano con sé la condivisione degli obiettivi e la fiducia necessaria per lo Smart Working, quello vero. Quello per cui non importa quante ore, dove e quando lavori, perché quello che conta è che tu raggiunga il tuo obiettivo.

Il punto per me è questo: la cultura del lavoro e la sua organizzazione. Le persone non stanno chiedendo (solo) di lavorare da casa, ma stanno chiedendo flessibilità, un lavoro agile per davvero, non un lavoro da remoto dove si cerca di replicare a distanza le dinamiche tossiche del micromanagement.

Ecco cosa intende quando si parla di lavoro ibrido. Non vuol dire un po’ di giorni a casa e un po’ in ufficio per dare il contentino al dipendente e tranquillizzare il manager. Come dice Chiara Bisconti, esperta di lavoro agile, consulente per le risorse umane, è

“poter lavorare scegliendo il luogo più adatto, senza doversi recare fisicamente ogni giorno in ufficio. Con questa alternanza si restituisce alle persone la sovranità di gestione del loro tempo, delle loro vite e si favorisce la socialità, la vicinanza fisica; ma solo quando serve davvero.”

Un nuovo modo per ritrovare la propria libertà, al lavoro.

 

Ecco perché mi chiedo: davvero non vogliamo tornare più in ufficio?

Per lavorare insieme servono dei luoghi dove incontrarsi, conoscersi, scambiarsi opinioni e conoscenze. E no, non sono convinta che questi luoghi possano essere sostituiti in toto dagli strumenti digitali o dalle comunicazioni asincrone. Le relazioni sono fatte di tempi e di spazi, solo questi spazi bisogna saperli progettare per nuovi modelli del lavoro.

Come dice Riccarda Zezza, Founder di LIFEED:

Occorre incontrarsi, non basta lo schermo di un Pc. Occorrono i caffè, i corridoi, i balconi, le foto sulla scrivania, le partite di calcetto, gli imprevisti, i ritardi, gli sforamenti, i convenevoli.

La dimensione umana dell’incontro non è un lusso, un “di più”: è alla base di una capacità di progresso che può nascere solo dalla collaborazione, dal fatto che, come specie, sopravviviamo insieme, non da soli. Serve dunque e servirà sempre mettere a disposizione delle persone dei luoghi e dei modi per incontrarsi: questo dà un senso allo spostamento collettivo verso luoghi condivisi.”

Servono luoghi in cui le persone abbiano voglia di andare, in cui si sentano bene e siano convinte di poter svolgere le proprie attività al meglio. Spazi inclusivi e salubri a tutti i livelli, a cominciare dall’uso di materiali sostenibili e da una gestione efficiente degli edifici, per arrivare a layout flessibili, che facilitino l’incontro, la collaborazione, la condivisione di idee e progetti.

E infine, come dice Stefano Schiavo, Founder e CEO di Sharazad:

Servono i luoghi per essere improduttivi. Per non cadere nel culto dell’efficienza che non lascia spazio alla sedimentazione delle esperienze. E nemmeno alla serendipity e all’esplorazione di altro rispetto a quello di cui dobbiamo occuparci. A casa non abbiamo spazi per ragionare insieme. Non ci sono retrospettive informali. Non si cementa un gruppo, né un senso di appartenenza all’organizzazione.

L’ufficio offre spazi di relazione e scambio. Le discussioni aspre, le battute inaspettate, gli incontri fortuiti. Sono tutti rituali non pianificati che consentono una sana dose di… inefficienza.
Ma chi lo dice ora al capo che “si torna in ufficio per poter perdere tempo”?”

Vuoi approfondire? Ecco qualche link:

 

Photo by Annie Spratt on Unsplash